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Trattamento estetico naturale

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“La materia è un sorriso dell’eterno per farci uscire dai mondi e farci volere la realtà”
Questo aforisma evoca in modo poetico il senso profondo e autentico del concetto di bellezza, come archetipo di quella “qualità divina” della forma vivente – l’intelligenza della materia – che gli antichi identificavano con la dea Venere.
Questa qualità è mirabilmente descritta dal poeta latino Lucrezio nell'”Inno a Venere”:
“O madre, tu, degli Eneodi, o Venere alma, delizia degli uomini e degli dei, tu che vivifichi sotto gli astri scorrenti del cielo il mar che porta le navi, le terre che dan le messi: si genera ogni famiglia per te degli esseri, e nata vede la luce del giorno; giungi, e ti fuggono i venti, o dea, ti fuggon le nuvole, a te produce i soavi fiori la terra ubertosa, sorride a te la distesa del mare, e brilla di un largo chiarore il cielo tranquillo: e non appena la bella stagione di primavera si apre, e ridestosi l’alito fecondatore di zefiro si avviva, prima gli uccelli dell’aria, tocchi nel cuore del tuo potere, t’annusiamo, annusiamo il tuo ritorno, o diva; quindi le greggi indome saltare pei lieti pascoli e guadano i rapidi fiumi; così, soggiogato dalla tua grazia, bramosamente ciascuno ti segue dove ti piaccia condurlo: e per i mari ed i monti e le rapaci fiumane e le verdeggianti campagne e degli uccelli per entro le fronteggianti dimore, nel cuore a tutti infondendo la voluttà carezzevole, fai che ogni specie propaghi bramosamente la vita: poiché tu sola governi il cosmo, e senza di te cosa non v’è che si affacci alla celeste riviera del giorno, e nulla di lieto nulla sussiste d’amabile, ispiratrice ti invoco ai versi che per il nostro Memnio mi accingo a comporre sulla natura. Hai voluto tu stessa, o dea, che adornato di tutti i pregi eccellesse in tutti i campi: soffondi tanto più, dunque, tu, d’una soavità non caduca le mie parole, e per mare, per terra fa che sopiti tacciano intanto i feroci studi dell’armi. Allietare tu sola puoi d’una placida pace i mortali. Governa l’aspre fatiche di guerra Marte possente nell’armi e, vinto dall’insanabile piaga d’amore, egli spesso ti si abbandona nel grembo, e in su, così, riguardando riverso il collo tornito, in te d’amore, anelante, pasce gli occhi avidi e pende tutta di lui resupino l’anima dalle tue labbra. Stringiti a lui, mentre giace, dea, con l’intatto tuo corpo, versagli dalla tua bocca dolci parole, implorando, inclita, per i romani una pacifica tregua: che, con la patria turbata, né noi con cuore tranquillo potremmo attendere all’opera né, per seguir tali cose, l’illustre genere di Memnio negar potrebbe se stesso alla salvezza di tutti.”